William Klein

William Klein è conosciuto per il suo approccio non convenzionale all’arte.
Scultore, pittore, regista e fotografo, sempre all’insegna dell’anticoformismo.

Fin da piccolo, è stato un assiduo frequentatore del MoMa, che fu praticamente una sua seconda casa. A 14 anni, 3 anni prima della norma, si iscrisse al City College di New York per studiare sociologia; a 18 si arruolò nell’esercito americano. Nel 1948 si iscrisse al Sorbona di Parigi dove studiò con Andrè Lothe e Fernand Leger.

Quest’ultimo, incoraggiava i propri studenti a rifiutare e sovvertire il conformismo ed i valori borghesi che, dominavano il mondo dell’arte. In quegli anni si sposa con Jeanne Florin e decide di stabilirsi a Parigi, dove ancora risiede.

Nel ‘52 è a Milano dove dirige due spettacoli teatrali al “Piccolo”, e contemporaneamente collabora con l’architetto Angelo Mangiarotti. Nello stesso anno inizia a scrivere per la rivista di architettura “Domus”.
In questi anni, che precedono il suo ritorno a New York, inizia a sperimentare anche con la fotografia, e si guadagna l’appellativo di “anti-fotografo”.

«Con la fotografia potevo parlare della vita, cosa che non potevo fare con la pittura».

William Klein: la fotografia

Considerato una della figure più anticonformiste della fotografia americana del dopoguerra, si è sempre considerato un outsider. La sua idea di fotografia è sovvertirla dalle basi.
Nel periodo in cui lo sguardo “armonico” di Henry Cartier Bresson dettava legge, Klein si  dedica ad una sperimentazione formale e contenutistica che ribaltava ogni regola di composizione.

“Mi piacciono le foto di Cartier-Bresson, ma non mi piace il suo insieme di regole. Così le ho invertite. Penso che la sua visione della fotografia, che deve essere obiettiva, sia una sciocchezza”.

Klein scattò molte delle sue foto proprio con una macchina fotografica comprata da Cartier Bresson, mostrando quanto in fotografia autori differenti possano dare risultati completamente diversi utilizzando lo stesso mezzo.

Le sue immagine non sono quasi mai pulite ed ordinate, anzi, risutano spesso fuori fuoco, mal composte, tagliate…

Eppure dotate di una carica e di una vitalità che sconvolse un’intera generazione di fotografi. Qualsiasi cosa fosse considerata “errore” dal mainstream fotografico del tempo, lui riuscì a trasformarlo in nuovo metodo espressivo.

“Per me, fare una fotografia era fare un anti-fotografia.”

Considerava inutile, o almeno esagerata, l’ossessione per la tecnica che caratterizza ancora oggi tanti fotografi.

La bellezza di una foto per Klein non dipende dal filtro o dalla lente giusta:

“Il filtro giusto, la pellicola giusta, la giusta esposizione, non erano argomenti che mi interessavano molto. Ho avuto una sola fotocamera per iniziare. Di seconda mano con due lenti e senza nessun filtro. Quello che mi interessava era immortalare qualcosa sulla pellicola per poi passarla sotto il mio ingranditore, magari per ottenere un altro quadro.”

Oltre alla street photography, fu anche fotografo di moda. Non essendo molto interessato dalla moda, sfruttò quest’opportunità per sperimentare nuove tecniche fotografiche, e introdusse in questo campo l’uso del grandangolo, l’esposizione multipla, e l’uso congiunto di lunghe esposizioni e flash, trasformando la fashion photography in un’area ad alto livello di sperimentazione. Ma la sua vena anticonformista si espresse soprattutto nei reportage di street photography.

Il libro che lo portò alla ribalta come fautore di un nuovo linguaggio fotografico fu  “ Life is Good and Good for You in New York”. Questo libro viene considerato da molti come la madre della street photography, e fu  e premiato con il Premio Nadar nel 1957.

E’ un libro che, di nuovo, rifiuta i compromessi finora accettati dalla fotografia: rappresenta le persone più umili nella loro vita quotidiana, le foto sono crude , spesso fuori fuoco, volgari  ma piene di vita. New York, con i suoi scatti, risulta una città sporca e trascurata, lontana anni luce dalla New York scintillante di Manhattan. Ovviamente il pubblico e la critica inizialmente accolsero  il lavoro di William Klein con sentimenti contrastanti.
Klein racconta cosi’ i suoi primi passi nel mondo della fotografia:

“All’inizio degli anni ‘50 non riuscivo a trovare un editore americano per le mie immagini di New York. Tutti quelli a cui mostravo le mie fotografie commentavano: Questa non è New York, troppo brutta, troppo squallida e troppo unilaterale! Questa non e’ fotografia! Questa è merda!”

Ispirandosi a Moholy-Nagy e Kepes, inizia a mescolare pittura astratta e fotografia.
E’ proprio in questo periodo che Alex Liberman, pittore ed editore di Vogue America, lo nota.

Liberman gli chiede cosa voglia davvero fare. Klein risponde che quello che gli piacerebbe davvero fare e’ fotografare New York in una maniera nuova, realizzando una sorta di diario fotografico. Liberman decide di finanziarlo, ed anche se non se ne era occupato prima, gli offre un contratto come fotografo di moda per Vogue. Klein era nato a New York, ma dopo sei anni in Europa il suo punto di vista sulla città si era trasformato in qualcosa di ibrido fra lo sguardo di uno straniero e quello di un autoctono. “Mi comportavo come un etnologo immaginario”, racconta Klein.

“Trattavo i newyorchesy come un esploratore  tratterebbe una tribù Zulu. Cercavo scatti che fossero grezzi, il  “grado zero” della fotografia”.

La sua New York è viva, frenetica, e William vuole ritrarla così com’è, senza abbellimenti, pregiudizi o preconcetti.
La fotografia di strada dell’autore è totalmente libera da vincoli tecnici o da regole e mette lo strumento al totale servizio della pulsante umanità cittadina. Poco importa se per raggiungere il risultato voluto occorre sfocare un pò o usare il grandangolo in modo “inappropriato”.
Egli fa un uso creativo di grandangolo e teleobiettivo, infischiandosene delle regole.
La luce è quasi sempre naturale, l’utilizzo della tecnica del mosso abbonda come non mai.

L’opera di William Klein piega il tempo e lo spazio in un solo fotogramma: con l’obiettivo riesce a cogliere l’essenza del suo mondo. Il suo album fotografico sulla Grande Mela esce negli anni di On the Road di Kerouac, nel bel mezzo di una rivoluzione culturale, che egli cavalca appieno.

William Klein: Il cinema

Alla fine degli anni ’50 diventa assistente di Federico Fellini, che lo nota proprio grazie ai suoi reportage fotografici.
William Klein in questo periodo, si dedicherà esclusivamente alla settima arte.
Nel 1958 gira Broadway by light, che ottiene una menzione d’onore da Orson Welles.
Tra gli altri suoi lavori, un documentario su Cassius ClayMuhammad Ali, the Greatest, un film di finzione sul mondo della moda, Qui êtes-vous, Polly Maggoo, e numerosi spot pubblicitari.

Klein a Roma:

Parliamo della Roma meta’ anni ‘50, la Roma del grande cinema e del boom economico. Klein ha la possibilità di viverla al meglio, introdotto alla città dall’èlite culturale del momento. Arriva in città invitato da Federico Fellini per fare da aiuto regista ne “Le notti di Cabiria”.

L’inizio delle riprese però viene posticipato, e Klein si ritrova a girare per le strade di Roma accompagnato da guide d’eccezione come Pasolini, Moravia e lo stesso Fellini, realizzando un magnifico affresco della città e della sua gente che raccoglierà nel libro “Roma+Klein”, pubblicato da Feltrinelli nel 1959 e recentemente ripubblicato da Contrasto. In questo periodo ebbe modo di conoscere anche  Sophia Loren, che dirà di lui : “Klein ha occhi come coltelli. E’ spietato e scandaloso ma non è mai cattivo. E’ tenero, buffo e violento e sono sicura, profondamente innamorato di questa nostra pazza Roma”.
Come regista realizzo’ oltre 20 film, fra cui il primo documentario in assoluto su Muhammad Alì.

75 + Fight Communism. New York, 1955
Pattern simile per Gun 1, dove però regna l’elemento umano: il simbolo anarchico racconta una storia che ci dice tutto quello che dobbiamo sapere su New York: cinema, pistole e disprezzo per le regole. Praticamente un film neorealista in un solo fotogramma.
Proprio come i suoi soggetti, la fotografia di William Klein è incontenibile, esce fuori dai bordi e travalica i confini del supporto.

Gun 1, 1955
New York non è mai stata così brutta. La fotografia di strada non è mai stata così bella. L’opera di Klein scatena le reazioni più disparate, spesso accusata di rovinare una città bellissima, di dare spazio solo al brutto, allo squallido e all’osceno, guastandone l’immagine di Città per eccellenza.
La “contemporaneità sincronica” del fotografo crea storie nel quale ogni soggetto nel piano visivo ha la sua ragion d’essere.
Come se la storia non meritasse gerarchie di senso: tutti sullo stesso piano, sia nello storytelling che visivamente.
Vedendo Benedizione Papale in Piazza San Pietro, è subito chiaro perché William Klein sia stato chiamato da Fellini.

La sua rappresentazione di Roma non è meno grottesca e vivida dei ritratti di New York. La sensazione qui non è di vedere una foto, ma il fotogramma di un film neorealista, del quale possiamo quasi immaginare la trama.
Si fa fatica a pensare che esistesse una Roma così: le foto di William Klein sono lì per ricordarci una Città Eterna che è rimasta tale solo nelle immagini di repertorio, trasudante un’umanità sudicia, appiccicosa e immortale.
Anche a Parigi, riesce a cogliere il lato più grottesco in Club Allegro Fortissimo, 1990.

«Per me, fare una fotografia era fare un anti-fotografia»
“Se si guarda attentamente la vita, si vede sfocato. Agita la mano. La sfocatura è una parte della vita“.

Le sue fotografie sono spesso fuori fuoco, ma pochi come lui sanno mettere a fuoco le regole per una grande fotografia.
La parola “regole” non si addice esattamente a William Klein.

“Se le tue fotografie non sono abbastanza belle, non sei abbastanza vicino”.

Questo lo diceva Robert Capa, ma anche per William Klein questa frase è più che valida.
Grazie a un utilizzo “estremo” del grandangolo, William scattava vicinissimo ai suoi soggetti, senza tralasciare dettagli importanti dell’immagine.
La vicinanza ai soggetti, permette al fotografo anche di interagire meglio con loro, creando un contatto più umano e abbattendo le distanze.

Se le foto sono sfocate, mosse, con grana e patina, tanto meglio. Più la foto è libera, anche dalla tecnica e dalle regole, più sa trasmettere libertà, vivacità e autenticità.

Si fotografa la vita, non la finzione, e la vita è imperfetta, non c’è niente di più imperfetto.

La fotografia non esiste come istante perfetto fine a se’ stesso, ma è parte di un flusso incessante e inarrestabile.
Il fotografo non può essere tanto arrogante da pensare di cristallizzare un’umanità complessa in un solo attimo.
Egli deve mettere i piedi nel fango, sporcarsi le mani e seguire il moto perpetuo dell’umanità.

«Anything goes, nessuna regola, nessuna proibizione, nessun limite».

Queste sono le parole di William Klein che, meglio di ogni altro titolo, ne riassumono la filosofia.

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